Il privilegio di sputare nel piatto in cui si mangia

Il privilegio di sputare nel piatto in cui si mangia

In Europa e negli Stati Uniti c’è una parte dell’opinione pubblica che si definisce progressista. Sfila ai Pride, parla di diritti, di inclusione, di giustizia sociale. Ma poi, nella stessa manifestazione, sventola bandiere di Hamas, difende la Cina comunista, giustifica l’Iran teocratico e chiude un occhio su ogni abuso, purché venga commesso da un nemico dell’Occidente.

Questa non è sinistra. È un cortocircuito ideologico. È ipocrisia. Ed è pericolosa.

Difendono i diritti solo quando fa comodo

Come si può parlare di libertà e allo stesso tempo sostenere movimenti che reprimono brutalmente le minoranze?
Come si può difendere i diritti LGBTQ+ e al tempo stesso legittimare gruppi come Hamas, che in nome della sharia perseguitano e giustiziano omosessuali?
Come si può invocare giustizia sociale e poi prendere le difese del Partito Comunista Cinese, responsabile di censura, campi di rieducazione e sorveglianza di massa?

La risposta è semplice: non gliene importa davvero dei diritti. Quello che conta è il nemico comune: l’Occidente libero, democratico e fondato sul mercato.

Antisemitismo e antiamericanismo travestiti da attivismo

Dietro lo slogan “Free Palestine” non c’è sempre solidarietà umanitaria. Spesso c’è l’odio per Israele, non come Stato ma come simbolo dell’Occidente: una democrazia di successo, pluralista, alleata degli Stati Uniti.
E dietro il “No war” c’è l’odio per l’America, per il libero mercato, per tutto ciò che rappresenta l’individuo libero di scegliere, lavorare, costruire.

È antiamericanismo travestito da coscienza civile. È antisemitismo riciclato in linguaggio inclusivo.

Approfittano della libertà per promuovere l’illibertà

Il paradosso più tragico?
Queste persone usano le libertà dell’Occidente per promuovere ideologie che, se applicate, distruggerebbero proprio quelle libertà.

Manifestano nelle piazze grazie alla libertà di espressione garantita dalle democrazie liberali. Ma chiedono la fine del “capitalismo”, vogliono “demolire il sistema”, disprezzano il libero mercato e tutto ciò che ha garantito benessere, diritti e progresso in Europa e negli Stati Uniti.

Sono nemici della libertà che usano la libertà per legittimarsi.

Non sono progressisti: sono reazionari ideologici

Questi non sono attivisti moderni. Sono nostalgici del comunismo, del collettivismo, del controllo sociale. Difendono ogni forma di autoritarismo purché sia in chiave anti-occidentale. Sono i primi a gridare alla censura se li contraddici, ma i primi ad appoggiare regimi che censurano tutto.

Sono reazionari ideologici, mascherati da rivoluzionari.

Sono pericolosi

Perché alimentano odio e divisione sotto l’apparenza del progresso. Perché educano le nuove generazioni alla schizofrenia morale: sfilare per i diritti mentre si sostengono i carnefici. Parlano di inclusione, ma dividono. Parlano di pace, ma simpatizzano per chi l’ha sempre rifiutata.

Quando la coerenza muore, la libertà non regge. E quando si giustifica l’oppressore, si prepara il terreno alla prossima dittatura.

Contro il libero mercato… finché non c’è da ordinare su Amazon

C’è un’ipocrisia centrale in tutta la galassia della sinistra radicale e del progressismo anti-sistema: disprezzano il libero mercato a parole, ma ne vivono i vantaggi ogni singolo giorno.

Attaccano il capitalismo su Twitter, usando smartphone Apple o Samsung. Pubblicano reel su Instagram per denunciare le “multinazionali”, ma non rinunciano a Spotify, Netflix o a un caffè da Starbucks. Denunciano il “neoliberismo” dopo aver ordinato i cartelli della manifestazione su Canva e ricevuto i volantini stampati in 24 ore da una tipografia online.

Dicono di voler abbattere il sistema, ma vivono nel comfort garantito proprio da quel sistema.

Questa non è solo incoerenza. È disonestà intellettuale travestita da impegno sociale. Perché se davvero credessero in un’alternativa al libero mercato, dovrebbero smettere di usare il 90% delle cose che rendono possibile la loro stessa attività “militante”: internet, logistica globale, tecnologia, piattaforme gratuite, mezzi di comunicazione orizzontali. Tutto questo esiste perché qualcuno, da qualche parte, ha rischiato capitali, fatto impresa, venduto qualcosa, investito.

Anticapitalismo di lusso

Il paradosso si fa ancora più grottesco quando si scopre che molti attivisti “anticapitalisti” appartengono a contesti borghesi, se non direttamente privilegiati: figli di famiglie benestanti, cresciuti in ambienti colti, educati in scuole dove si impara a contestare il sistema prima ancora di conoscerlo.

Il loro anticapitalismo è spesso una posa estetica, un’identità culturale. Non l’hanno mai realmente sfidato, né pagandone il prezzo, né proponendo un’alternativa praticabile. Sono ribelli da salotto, pronti a sostenere il controllo statale su tutto, purché non manchi loro la connessione Wi-Fi e l’abbonamento a Prime.

Il privilegio di sputare nel piatto in cui si mangia

Solo nelle democrazie di mercato puoi permetterti di manifestare contro il sistema che ti garantisce la libertà di manifestare. Nei regimi che questi stessi attivisti difendono – dall’Iran alla Cina – verrebbero messi a tacere, incarcerati, zittiti. Ma questo non lo vedono, o peggio, lo ignorano volutamente.

Criticare il libero mercato mentre se ne raccolgono i frutti è come maledire l’aria mentre respiri a pieni polmoni.

Il mercato non è perfetto. Ma ha creato prosperità, mobilità sociale, innovazione, diritti. E soprattutto, ha reso possibile la libertà individuale in una misura mai vista prima nella storia dell’umanità. Chi lo combatte oggi, pur beneficiandone, non è un rivoluzionario. È un ingrato privilegiato che gioca alla rivoluzione con i soldi e la libertà degli altri.