Non è colpa degli ebrei se sei un fallito: l’antisemitismo come fuga dalla responsabilità personale
Jordan Peterson ha affrontato il tema dell’antisemitismo in più occasioni, specialmente da una prospettiva psicologica, archetipica e simbolica, piuttosto che solo storica o sociologica. Per lui, l’antisemitismo non è soltanto un pregiudizio etnico o religioso, ma esprime una forma distorta e patologica di risposta a dinamiche profonde dell’animo umano, specialmente legate all’invidia, al risentimento e alla paura del fallimento.
Ecco i principali aspetti della natura psicologica individuale dell’antisemitismo secondo Jordan Peterson:
1. Invidia nei confronti del successo percepito
Peterson sostiene che l’antisemitismo nasce spesso da un’invidia patologica. Gli ebrei, in molti contesti storici, sono stati percepiti come un gruppo “di successo” — spesso istruiti, influenti nel commercio, nella finanza, nella cultura. Questa percezione attiva nei singoli un senso di inferiorità e frustrazione. Invece di affrontare le proprie mancanze o responsabilità, l’individuo proietta queste emozioni su un capro espiatorio facilmente identificabile.
“Quando qualcuno ha successo, e tu no, la reazione sana è cercare di imparare da lui. Ma la reazione patologica è volere la sua distruzione.”
— (Parafrasi di Peterson)
2. Proiezione della colpa e fallimento del Sé
Secondo Peterson, l’antisemitismo è alimentato da una psicologia del fallimento personale, nella quale l’individuo non riesce a costruire un’identità solida, autonoma, moralmente responsabile. Invece di accettare il proprio ruolo nel caos della vita, si rifugia nella convinzione che un “Altro” sia responsabile di tutto ciò che va male: economia, cultura, morale.
In questo senso, l’ebreo diventa una figura simbolica, un “nemico” che incarna l’ordine sociale che l’antisemita non riesce a dominare.
3. Antisemitismo come espressione dell’ombra junghiana
Peterson, fortemente influenzato da Jung, considera l’antisemitismo anche una manifestazione dell’ombra individuale, cioè di quella parte oscura e repressa della psiche. L’ebreo, stereotipato come manipolatore, potente o segreto, rappresenta ciò che l’individuo rifiuta di riconoscere in se stesso: l’ambizione, l’intelligenza strategica, la resilienza.
Questa proiezione dell’ombra genera odio, perché si odia nell’altro ciò che non si vuole affrontare in sé.
4. Ricerca patologica del nemico ordinatore
Peterson lega l’antisemitismo anche alla tendenza archetipica dell’uomo a voler semplificare il caos del mondo trovando un nemico chiaro e identificabile. In epoche di crisi o trasformazione, quando il disordine prevale, la mente cerca una narrazione moralmente ordinata: “Se elimino quel gruppo, tutto tornerà a funzionare”.
In questo senso, l’ebreo diventa un capro espiatorio sacro, quasi mitologico, una figura sulla quale proiettare tutto il caos interiore e sociale.
5. Il pericolo del pensiero totalitario
Infine, Peterson mette in guardia contro le ideologie collettiviste o utopiche, che necessitano sempre di un nemico da distruggere per costruire un “mondo perfetto”. L’antisemitismo, nei suoi momenti storici più estremi, come nel nazismo, è stato proprio questo: un pensiero totalitario che giustifica la violenza contro un gruppo ritenuto “ostacolo” al paradiso sociale.
In sintesi
Per Jordan Peterson, l’antisemitismo nasce da:
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Frustrazione personale e invidia repressa
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Proiezione delle colpe del Sé sull’Altro
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Paura del caos e bisogno di capri espiatori
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Rifiuto dell’ombra individuale
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Ideologie disumanizzanti che cercano nemici per darsi ordine
Se vuoi, posso approfondire ognuno di questi punti anche con citazioni dirette dai suoi libri o podcast, in particolare Maps of Meaning e 12 Rules for Life, dove tratta questi temi in modo esteso, anche se non sempre con focus esclusivo sull’antisemitismo. Vuoi che lo faccia?