“Parthenope”, l’ultimo film di Paolo Sorrentino, sembra più uno spot esteso di Dolce & Gabbana che un’opera cinematografica. Le immagini patinate, le inquadrature studiate al millimetro e l’estetica lussuosa ricordano le pubblicità dei profumi, dove tutto è bello ma privo di sostanza. I personaggi parlano come oracoli, pronunciando frasi altisonanti che suonano come supercazzole letterarie, dando l’impressione di voler dire qualcosa di profondo senza mai riuscirci davvero. La trama è esile, quasi inesistente, e sembra servire solo da pretesto per una serie di scene esteticamente piacevoli ma vuote di contenuto. È sorprendente come una certa categoria di spettatori consideri questo film un capolavoro, quando in realtà sembra solo una lunga, elegante e noiosa pubblicità. Forse Sorrentino dovrebbe ricordare che il cinema non è solo estetica, ma anche sostanza e narrazione.
Tra antropologia, supercazzole letterarie e sigarette in mano, il film è una opera ambiziosa come falsificare una banconota da 200 euro. Ambientato in una Napoli onirica e decadente, il film segue le vicende di personaggi che si esprimono con un linguaggio oracolare, quasi a voler conferire profondità a riflessioni che, a uno sguardo più critico, possono apparire vuote o pretenziose.
Nonostante l’intento evidente di celebrare la complessità e la bellezza di Napoli, “Parthenope” potrebbe risultare involontariamente comico per alcuni spettatori. I dialoghi, spesso carichi di supercazzole letterarie, sembrano voler impressionare con la loro profondità, ma finiscono per apparire artificiosi e forzati.
Il film sembra rivolgersi a un pubblico che apprezza l’estetica ricercata e le riflessioni filosofiche, ma rischia di alienare chi desidera una narrazione più autentica e meno pretenziosa. In definitiva, “Parthenope” si configura come un esercizio di stile che, pur offrendo spunti visivi notevoli, potrebbe non soddisfare chi cerca sostanza oltre l’apparenza.