Trump e la psicopatologia della sinistra estetica: antropologia dell’odio liberal
La sinistra estetica, dopo aver perso ogni legame autentico con la classe operaia, ha trovato nei migranti, nelle minoranze sessuali e nei gruppi identitari una nuova base simbolica. Ma dietro la retorica dell’inclusività, si nasconde un meccanismo cinico: anche queste categorie vengono sfruttate, non sul piano economico ma su quello politico. Non sono davvero ascoltate, ma strumentalizzate. Diventano bandiere da sventolare, non persone da rappresentare. Il loro dolore serve a costruire narrative morali, non soluzioni. La sinistra che un tempo parlava il linguaggio del lavoro, oggi recita quello del vittimismo selettivo, usando le minoranze come leva per tornaconti elettorali e visibilità sociale.
Donald Trump non è odiato dalla sinistra solo per le sue politiche. È odiato perché rompe un ordine simbolico, infrange un rituale collettivo e rivela la fragilità dell’identità progressista moderna. Il suo stile, il suo linguaggio e la sua impudenza rappresentano una minaccia ontologica, più che politica.
La sinistra estetica come comunità rituale
Antropologicamente, ogni comunità si fonda su riti, simboli condivisi, gerarchie morali. La sinistra contemporanea – soprattutto quella delle élite urbane, accademiche e culturali – ha costruito una vera e propria religione secolare fondata sull’inclusività, l’empatia performativa, il linguaggio corretto, l’adesione a valori simbolici condivisi.
Chi rompe questi codici non è solo in errore: è un eretico. E Trump è un eretico totale. Si prende gioco del linguaggio corretto, irride le identità protette, deride la liturgia dei sentimenti pubblici. È l’uomo impuro che contamina il tempio laico dell’ordine liberal.
Psicopatologia della purezza
L’indignazione verso Trump è spesso esagerata, compulsiva, quasi religiosa. Perché? Perché non nasce da un confronto razionale, ma da un bisogno di espulsione rituale: Trump è il capro espiatorio che deve essere demonizzato per preservare la purezza del gruppo. È la dinamica descritta da René Girard: “la comunità si unifica odiando insieme un nemico comune che porta il caos nel rito.”
In questo senso, l’odio verso Trump serve alla sinistra per riaffermare la propria identità. Non importa cosa dica o faccia: è necessario che esista come figura mostruosa, per mantenere coesa la tribù.
Il trauma del reale
Trump non è un politico raffinato, non è un filosofo, non è un uomo del sistema. È un archetipo del caos: viscerale, diretto, offensivo, ma anche potentemente reale. È il ritorno del popolo, del corpo, dell’istinto, di tutto ciò che il progressismo postmoderno ha cercato di addomesticare con la parola e la forma.
Il suo successo ha ricordato che la politica non è solo narrativa, ma anche forza, fame, identità collettiva. E questa verità ha generato un trauma epistemico: se Trump può vincere, allora la realtà non è come la raccontavamo.
La contraddizione dell’odio progressista
Molti di quelli che lo odiano sono i primi a parlare di inclusività, accoglienza, dialogo. Ma il loro dialogo vale solo all’interno del proprio recinto culturale. Quando si trovano di fronte un corpo estraneo come Trump – che non vuole essere incluso, che non chiede di essere capito, ma che irrompe con la forza del reale – reagiscono con esclusione, censura, demonizzazione.
Lo odiano perché non è rieducabile. Non cerca redenzione, non gioca secondo le loro regole. E questo li destabilizza.
Conclusione: un odio necessario
Trump è odiato non perché rappresenta il male, ma perché rappresenta ciò che la sinistra estetica ha espulso da sé: la sporcizia, l’eccesso, l’istinto, la semplificazione brutale del conflitto. Eppure, proprio da ciò che rifiuta, questa sinistra trae la sua ragion d’essere.
Senza Trump, non saprebbero chi sono.
Lo odiano, ma ne hanno bisogno. Come ogni tribù ha bisogno del suo mostro.